mercoledì 17 aprile 2013

Lungofiume di pensieri


Camminare è sempre stata una delle mie attività preferite, una valvola di sfogo irrinunciabile. Appena il tempo si fa bello, appena ho un pomeriggio libero, ecco che infilo le scarpe da ginnastica, metto una bottiglietta d'acqua in borsa e parto, libera e leggera. Un passo dopo l'altro mi lascio alle spalle ogni preoccupazione. C'è qualcosa di catartico nel ritmo regolare scandito dai piedi. Per me guidare è un'agonia, andare in bicicletta un modo ecologico ed economico per compiere brevi distanze, ma l'unico vero modo di percorrere un tragitto cogliendone ogni dettaglio, entrando in sintonia con il paesaggio che ti circonda e purificando mente, anima e corpo, è andare a piedi.
Ed ora, finalmente, posso farlo. Dopo un lungo inverno chiusa in casa a scalpitare, con qualche occasionale sortita del tutto insufficiente a soddisfare le mie necessità, sono finalmente nella condizione di percorrere chilometri e chilometri con la deliziosa compagnia di me stessa. Già, perché io cammino da sola. Posso essere anche con altri, certo, ma in genere, nelle mie lunghe passeggiate, ci siamo soltanto io ed i miei pensieri.
E quest'anno attendevo la primavera con ansia ancora maggiore, perché ho un'intera nuova città di cui esplorare le possibilità a piedi. La mia città universitaria, di cui per tutto l'inverno ho calcato soltanto i percorsi appartamento-facoltà-biblioteca-supermercato-appartamento, si apre finalmente ai miei passi curiosi come una scatola regalo. E che regalo!
Detto, fatto. Domenica ho infilato le mie fide scarpe da ginnastica, ho estratto dall'armadio una maglietta a maniche corte, ho infilato una bottiglia ed un pacchetto di cracker nella mia borsa, e via. Sapevo benissimo dove andare: proprio il giorno prima, in un piccolo assaggio di strade, avevo individuato un percorso che si snodava lungo il corso del fiume a poca distanza da casa mia, una strada bianca di polvere e sassi, percorsa da biciclette, cani e pedoni. Non avevo la minima idea di dove conducesse o quanto durasse, ma ero decisa a scoprirlo.
Ho raggiunto il lungofiume ed ho iniziato a camminare, e subito ho avvertito quel familiare senso di leggerezza che provo quando esistiamo soltanto la strada ed io. Da un lato, le automobili rombavano lungo la strada di asfalto liscio, circondata da case e palazzi. Dall'altro, il fiume scorreva placido attraverso una distesa di orticelli rigogliosi, arbusti e fronde verdeggianti, ciuffi d'erba ornati di papaveri. In mezzo, una stradicciola di sassi bianchi e polverosi, sopraelevata rispetto ad entrambi i lati, tanto da sembrare una sorta di osservatorio distaccato. La città da una parte, la natura dall'altra, ed in mezzo io, felice, a respirare a pieni polmoni e sorridere per le carezze del sole.
Intorno a me, ma non insieme a me, altre persone. Una coppia di ragazzi con un cane. Una coppia anziana che ogni pochi metri si fermava lungo l'argine a raccogliere delle piante. Ciclisti  che pedalavano veloci nelle loro tute fluorescenti. Famiglie in bicicletta, il papà con il figlio maschio davanti, la mamma con la bambina dietro, finché quest'ultima non urla "raggiungiamoli!" e comincia l'inseguimento. Persone che camminano da sole come me, e che con un rapido cenno di saluto sembrano riconoscermi come una loro simile, un membro dell'elitaria setta della solitudine marciante. Più donne che uomini, parecchi cani, qualche lucertola che guizza attraverso la strada sparendo subito alla vista.
Non avevo idea di dove stessi andando, né di quando ci sarei arrivata, ma non c'era fretta. E così potevo rallegrarmi per l'ombra tratteggiata da un paravento di canne palustri, alte e gialle, o per un soffio di brezza. Potevo fermarmi a guardarmi attorno, valutando la distanza dalla piccola parte della città che conoscevo, osservando compiaciuta l'assoluta estraneità del paesaggio circostante.
Poi, ormai alla fine della strada, quando già stavo meditando di tornare indietro, ho visto il campanile di una chiesetta romanica, che si stagliava contro l'azzurro del cielo, adorno di nastri e festoni. Una festa? Una sagra? L'unico modo per saperlo era avvicinarsi. Ho lasciato il mio lungofiume, ho percorso le vie deserte di una frazione che non avevo mai sentito nominare, ed ecco la chiesa. Sul prato davanti, alcune famiglie sedute a chiacchierare, sullo sfondo di un lenzuolo che annunciava a lettere sgargianti la festa della parrocchia. Nell'interno fresco e raccolto del piccolo edificio, frammenti di affresco in uno stile che mi ricordava Giotto. Una breve ricerca, un pannello informativo, ed ho appurato che erano effettivamente opera di un seguace del pittore.
Felice per la mia sensibilità artistica e per la scoperta di un nuovo, minuscolo gioiello di periferia, ho imboccato la via del ritorno. Ormai la stanchezza cominciava a farsi sentire, e non c'erano panchine su quel lungofiume. Ma, se le mie gambe tentavano di protestare, la mia mente rifiutava di ascoltarle, tutta presa ad assaporare la pace del momento. Il sole sopra di me, il fiume da un lato, dall'altro, ma separata da una cortina di giunchi che la rendevano quasi irreale, la strada, il grigiore rumoroso della civiltà automobilistica. In mezzo, ancora una volta, io, sospesa tra realtà e natura, fluttuante in un mondo di pensieri allegri e sogni ad occhi aperti.
Sì, camminare è sul serio la mia irrinunciabile catarsi. E, questo è il consiglio del giorno da parte di una blogger ubriaca di primavera, provateci anche voi.

Clara

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